Di Salvo Farina – È passato quasi un mese dal mio arrivo a Medellín, un tempo molto piccolo per comprendere una città come questa ma un tempo sufficientemente lungo per averne un’idea.
Gabriel Garcia Marquez diceva in un’intervista che senza un’immagine o un’emozione reale a cui aggrapparsi non si riesce a “vedere” la storia da scrivere perché la storia parte sempre dalla realtà e non da un’idea astratta.
E qui di storie da raccontare ce ne sarebbero molte, io ho scelto di raccontare una delle tante storie della Sierra, tra i barrios più difficili della città.
La Sierra è uno di quei posti dove a volte, ancora oggi, i taxi non si azzardano a passare.
Le case coi mattoni esposti e le baracche di legno coi tetti in lamiera ed eternit, si arrampicano su per la collina. Sembra un paese lontano dalla città, collegato solo da un anno da un sistema di cabinovie meglio noto come Metrocable, presente anche in altri punti della città. Prima era un luogo completamente isolato, nessuno andava se non perché ci viveva e chi ci viveva spesso ne rinnegava la provenienza. Ancora oggi rischi di non trovare un lavoro se vieni dalla Sierra.
Per anni i gruppi armati del quartiere hanno combattuto contro i gruppi dei quartieri rivali provocando centinaia di morti, tra cui moltissimi civili.
La notte, la gente dormiva per terra perché i colpi di fucile attraversavano agevolmente gli sgangherati muri delle case e il rischio di venire colpiti da un proiettile vagante era alto.
A distanza di qualche anno la situazione è sicuramente migliorata e le bande rivali non si sparano più tra loro. Si vive un periodo di tregua, la gente non vive più col terrore ma le problematiche, così come nel resto della città, rimangono tante.
Tra tutte vi è sicuramente quella della droga, quella della povertà, dell’esclusione e della violenza di genere.
Alla Sierra, incontriamo Padre Carmelo, un vivace frate siciliano che, confessa, la Sicilia crede di non conoscerla più tanto bene. Lavora con la parrocchia della Sierra ormai da 6 anni e ha vissuto in prima persona gli ultimi anni del conflitto.
Ci accoglie con un grande sorriso e con la gioia di chi non vede suoi conterranei da un bel pezzo: «Vienen de mi tierra», ripete con una punta di orgoglio alla gente che incontriamo per strada. Lo salutano tutti, soprattutto i bambini che corrono verso la scuola.
E cosi, ci porta subito a conoscere il collegio. Qui veniamo letteralmente sommersi da un’ondata di più di un centinaio di bambini festanti. «Ci sono circa 350 bambini a cui diamo da mangiare dal lunedì al venerdì, noi garantiamo il pranzo e loro ci garantiscono di venire a scuola».
L’atmosfera è bellissima, per un attimo ti dimentichi dove sei e ti lasci travolgere dall’entusiasmo di questo enorme grappolo di mocciosi urlanti e felici.
Ci intratteniamo con loro poco tempo, troppo poco. Breve ma intenso, come si suol dire.
La visita al barrio continua e saliamo scalino dopo scalino fin sulla cima, da dove si ammira un panorama impressionante di case, scale, colline e di buona parte della città. Vivere alla Sierra significa anche salire e scendere le scale mille volte al giorno, scale che diventano qui luogo dove si mangia, si gioca e ci si incontra: sono la parte viva del barrio, una vera e propria piazza o perfino qualcosa in più di una piazza; come dice Padre Carmelo durante la faticosa salita, «…sulle scale si cucina anche!», di sicuro ci si mantiene in forma.
Le immagini che mi passano davanti sono quelle che si vedono nei paesi, le porte aperte, i profumi di cucina, un confine tra “fuori” e “dentro” che sparisce.
Arrivati davanti la sua casa, Padre Carmelo ci racconta che da una sporgenza di terra accanto al tetto di lamiera della sua abitazione, i membri del gruppo armato sparavano coi fucili in direzione dei rivali del barrio vicino: da questo punto, infatti, si godeva di una vista privilegiata e costituiva un importante luogo strategico. Insomma, giusto per farmi tornare coi piedi per terra e per ricordarmi che rispetto a poco tempo fa, adesso sembra il paradiso.
La mattinata trascorre velocemente e ci salutiamo dopo un abbondante pasto che Padre Carmelo ci offre in compagnia degli altri giovani volontari.
Difficile raccontare questo barrio, come difficile è raccontare Medellìn, dove si viene travolti da una quantità indefinita di contrasti, bello e brutto, degrado e modernità, profumo e fetore, entusiasmo e depressione, ricchezza e povertà.
Medellìn è un po’ come una tavolozza di colori mescolati assieme, difficile capirla, forse impossibile definirla. Un po’ come quando un soffio di vento solleva dei granelli di sabbia sugli occhi annebbiandoti la vista e bisogna strofinarsi vigorosamente gli occhi per tornare a vedere nitidamente. Io sto ancora cercando di mettere a fuoco.
Marquez, ancora lui, allontanava vigorosamente quella scomoda definizione di realista magico che gli avevano appioppato perché sosteneva che la realtà fosse già intrisa di magia e non c’è alcun bisogno di affidarsi alla fantasia o all’immaginazione per creare un racconto, è già tutto nella nostra memoria.
Credo sia una splendida e rassicurante visione del mondo quella di vedere magia nel reale o di reale intrinsecamente e naturalmente magico.
Io di magia alla Sierra ne ho vista tanta e voglio sperare che questa magia possa cancellare un bel po’ della sporcizia di questa città.