Di Claudia Fauzia – La sfida del femminismo attuale è decolonizzare l’immaginario femminile pervaso da figure di uomini.
Durante la Escuela popular de Género y formaciòn socio-politica, di cui ci sentiamo ormai parte integrante, risulta evidente quanto sia arduo stilare una semplice lista di Eroine dei nostri tempi.
Le donne della Corporacion Amiga Joven avevano espresso il desiderio di mostrare a noi, visitanti straniere, la Esquina de la Mujeres, un angolo commemorativo di quelle donne che hanno lasciato il segno in questa terra colombiana. Tra loro artiste, scrittrici, dottoresse, attiviste e rappresentanti di minoranze etniche, per non relegare all’oblio le spesso “invisibilizzate” comunità indigene ed afro discendenti. Donne di potere, sia economico che politico e non di rado lontane dall’idea di femminismo e di lotta di una classe subalterna. Alcune si sono limitate a difendere i diritti umani che dovevano senza dubbio comprendere quelli di donne come loro.
Ma dobbiamo necessariamente rivolgerci al passato per riconoscerci come portatrici della trasformazione di quello che è considerato l’“ordine delle cose”?
Mentre Ana, Salomé, Blanca e le altre mujeres scavavano nella loro memoria per completare la lista delle eroine odierne, io le guardavo completamente assorta.
Un gruppo eterogeneo di donne tra i 50 e i 60 anni, nate, cresciute e proliferate all’interno delle mura invisibili del barrio San Pedro. Si racconta che ad una di loro “le hanno ucciso il figlio”, una frase ricorrente in questi ultimi giorni, ma chi sia stato non si sa o è meglio non saperlo. Doña Salomé invece ci confessa sottovoce, quasi come se fosse un segreto da non rivelare, di credere che Pablo Escobar, il famigerato capo del cartel de Medellin, non sia mai stato ucciso. Si diceva che alla morte di Escobar la violenza a Medellín sarebbe cessata, ma la guerriglia urbana non ha mai avuto fine è ciò alimenta la credenza, condivisa da molte donne, che il narcotrafficante in realtà sia ancora vivo. Basta scambiare poche parole con queste donne per comprendere come sia più semplice, per andare avanti, aggrapparsi all’idea che il narcotrafficante sia ancora vivo che inginocchiarsi davanti al perpetuarsi della violenza urbana. Poi c’è Blanca che con un atto di estremo coraggio, ha lasciato che la minore dei suoi 8 figli partisse alla volta dell’Italia: un progetto di comunicazione incentrato sulla violenza di genere.
Chi l’avrebbe mai detto che una ragazza nata in un luogo in cui le condizioni economiche spesso non permettono di oltrepassare i confini della città riuscisse a solcare l’immensità dell’oceano?
Questa è la gente pequeña di cui parla Galeano che, grazie anche all’esemplare lavoro della corporazione, lotta quotidianamente contro una cultura ed una società maschilista che le debilita, le relega ai margini della società, le violenta, le priva di un potere economico e politico, le nullifica.
Loro invece, con un fare irriverente, si incontrano e parlano, imparano dal confronto, litigano per le incomprensioni e poi ridono. Ridono sempre. Ridono nonostante tutto. Coinvolgono figl*, nipoti e amic* alle riunioni della scuola popolare perché sentono sorgere dalle viscere l’impellente necessità di sradicare l’eredità del maschilismo egemonico che si insinua impertinente tra le radici delle loro immense famiglie.
Le donne di tutto il mondo, dall’India alla Colombia, passando per l’Italia, sono in quieta rivoluzione. Lottano senza troppo chiasso, quasi sussurrando. Una rivoluzione sotterranea, la si intravede per caso ma solo i suoi “temibili” effetti sono percepibili agli occhi esterni. È la rivoluzione di chi non ha bisogno di attirare l’attenzione ma crede indispensabile rovesciare l’ordine delle cose e farlo adesso.
È il suono del silenzio. È la voce di una donna che grida libertà.