Di Stefania Mangiapane – Le migrazioni non sono un fenomeno lineare tra il paese di origine e il paese di approdo, come troppo spesso le si immagina: il percorso più breve dalla Tunisia, dal Marocco o dall’Egitto per arrivare in Italia è in realtà un tragitto a tappe, in cui giocano un ruolo importante il caso e la necessità, la mancanza di alternative o la facilità di ingresso in Italia nonché le relazioni.
Così come una volta entrati in Italia, difficilmente i migranti raggiungono o individuano immediatamente la meta prefissata del proprio progetto migratorio.
Questo articolo mira a spiegare il fenomeno migratorio in correlazione con il mercato del lavoro in Italia alla luce dei nuovi dati pubblicati recentemente dal Ministero del Lavoro nel “ V Rapporto annuale dei migranti”.
LE RAGIONI DELL’EMIGRAZIONE
Le emigrazioni non sono più determinate, come accadeva in passato, dall’ “attrazione” da parte dei principali Paesi capitalistici su aree economicamente arretrate quindi dalle condizioni di offerta economica da parte dei Paesi d’arrivo .
Le emigrazioni odierne sono principalmente dovute ad fenomeni legati a Paesi che non riescono a garantire neanche le condizioni minime di autosufficienza alimentare.
Sono segnate da molteplici motivi sempre più extraeconomici e c.d. umanitari: persecuzioni politiche, religiose ed etniche, guerre nonchè crisi di sistemi geopolitici.
Nel 2014, la grande maggioranza degli stranieri residenti (UE e non UE) si distribuisce principalmente in cinque paesi, tre con una consolidata tradizione come destinazione dei flussi migratori — Germania (7 milioni), Regno Unito (5 milioni) e Francia (4,2 milioni) — e due paesi con una storia recente di immigrazione — Spagna (4,7 milioni) e Italia (4,9 milioni).
Nella seguente tabella è agevole desumere la rappresentazione dettagliata per Stato della presenza straniera nei paesi della UE.
IL DIVERSO RUOLO ECONOMICO SBOLTO DAGLI IMMIGRATI
Per capire meglio la crisi del nostro Paese e la difficoltà di integrazione attuale degli immigrati è opportuno guardare al passato.
Gli anni ’50-’70 erano caratterizzati da un modello di integrazione sociale della società fordista che ha garantito milioni di immigrati in Paesi come la Repubblica Federale Tedesca, la Francia, il Belgio, la Svizzera, attraverso l’assorbimento lavorativo nel settore primario e nella grande industria metalmeccanica, chimica, edilizia imponendo un modello ove gli immigrati costituivano il 10% della forza lavoro occupata, con punte fino al 25% o il 30% in alcuni settori particolari.
Questo modello di integrazione si basava su alcuni assi portanti:
– la garanzia del lavoro operaio fisso;
– la garanzia dei diritti sociali e sindacali di cui godevano i lavoratori autoctoni e la loro continua estensione attraverso l’iniziativa contrattuale-conflittuale del movimento operaio;
– la percezione degli stessi immigrati come una risorsa per l’intero sistema: non solo per le aree arretrate di provenienza, per cui costituivano, attraverso le rimesse, una fonte di ricchezza, ma anche, e soprattutto per le aree sviluppate in cui permettevano di ovviare a una scarsità strutturale di forza-lavoro disponibile rendendo possibile una maggiore utilizzazione della capacità produttiva.
L’immigrato, in quanto forza-lavoro operaia veniva incluso nel meccanismo produttivo e, pertanto, veniva garantita una forma di riconoscimento e integrazione nella società di accoglienza.
E’ innegabile che anche allora esistevano problemi anche rilevanti, ma solo attraverso la ricostituzione di una modalità di integrazione dei lavoratori immigrati sarà possibile creare uno sviluppo sostenibile basato sulla centralità del capitale umano nell’impresa.
La crisi del modello fordista ha provocato la crisi a catena del welfare state, lasciando il posto ad un modello di società talvolta definita “post fordista”, in cui la globalizzazione e la terziarizzazione dell’economia, accompagnata alla crisi economica dello Stato, hanno lanciato nuove forme di organizzazione della produzione e un cambiamento nelle relazioni sociali.
Ma esistono delle caratteristiche dei “nuovi” migranti che, qualora valorizzate possono creare sviluppo per il nostro Paese.
Analizziamole meglio.
I migranti di oggi possiedono un’identità più forte delle vecchie generazioni di migranti che abbandonavano l’Italia per l’America o per gli altri Paesi capitalistici, costituite per lo più da contadini espulsi da aree in cui lo sviluppo capitalistico aveva determinato fenomeni di vero e proprio “blocco della storia”. Aree in cui la civilizzazione capitalistica non era ancora giunta e permaneva quella “cultura tradizionale”, del tutto estranea dalla “nuova” etica dominante.
Gli attuali migranti sono per lo più giovani scolarizzati, molte volte con un tasso di istruzione che nelle dimensioni generali risulta più elevato di quello che mostra la forza-lavoro italiana nel suo complesso.
Tale sostanziale cambiamento è frutto non solo dell’istruzione ma soprattutto dei mass media, che ne condizionano i desideri ed i consumi che la società occidentale offre (o promette di offrire) a chiunque ne faccia parte.
Questa cesura viene confermata non solo da indicatori soggettivi quali la scolarità, la conoscenza di più lingue (quasi sempre francese o inglese, oltre l’italiano e la lingua madre), ma anche dalla propensione al consumo di tipo occidentale nonché la disponibilità a forme di lavoro autonomo o in proprio.
Sul punto si rileva: “La mancata coerenza tra competenze formali e mansioni ricoperte è un elemento caratterizzate la presenza degli stranieri nel mercato del lavoro. La disaggregazione degli occupati per livello di istruzione (ISCED) consente di rilevare nelle classi estreme fino a ISCED 1 e ISCED 5-8 le uniche significative differenze tra cittadinanze. La quota di occupati comunitari ed extracomunitari con al massimo la licenza elementare è più alta della quota stimata per gli italiani (rispettivamente il 9,4% e il 3,4%), così come la percentuale dei lavoratori migranti laureati è circa la metà di quella stimata per la controparte italiana (11,8% vs. 21,3%). Per quel che riguarda l’educazione secondaria inferiore ed educazione secondaria superiore/post secondaria non terziaria (livelli ISCED 2 e 3-4) le composizioni sono pressoché simili (tabella 2.14). Significativamente diversa, invece, la suddivisione degli occupati italiani e stranieri per livello di istruzione e profilo professionale” (cfr. Tabella 2.14 – Tabella 2.15).
Tali caratteristiche rendono i migranti dei veri e propri “agenti di sviluppo”.
Dal “V Rapporto annuale migranti” si rileva inoltre che: “Oggi, nel caso di alcune specifiche mansioni per i cittadini stranieri è possibile parlare di indispensabilità, visto anche l’effetto compensativo che essi svolgono in alcuni settori sottoposti a robusti processi di erosione della base occupazionale. Come è stato più volte osservato, la crisi economica ha contribuito a ridefinire il ruolo della forza lavoro straniera mutandone le forme della presenza all’interno dei sistemi occupazionali [Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione 2014]. Mentre in paesi come Regno Unito, Germania e in parte Spagna, la dinamica dell’occupazione straniera segue l’andamento generale del mercato del lavoro, in Italia essa assume un andamento divergente rispetto alla traiettoria della forza lavoro nativa. La natura della domanda espressa dal sistema economico-produttivo italiano, nel caso specifico dei lavoratori stranieri, è pressoché schiacciata su professionalità low skills, vista la sostanziale assenza del fabbisogno di personale immigrato dotato di elevate competenze tecniche e professionali”.
Dal confronto dei dati dell’ultimo biennio 2013-2014, è agevole desumere che in alcuni comparti sono quasi esclusivamente le componenti comunitaria ed extracomunitaria ad assicurare gli unici incrementi del numero di lavoratori nel settore agricolo e industriale.
In particolare, nel settore del Commercio la sostenibilità è garantita esclusivamente dalla forza lavoro straniera ove nel solo biennio l’occupazione Extra UE è cresciuta del 9%, a fronte di un calo della componente italiana del 2,4%.
Dall’analisi della tabella seguente è possibile rilevare che nel settore Commercio e Agricoltura nell’anno 2014 la componente extracomunitaria ha contribuito ad una variazione positiva dell’occupazione.
Nella tabella seguente si evidenzia che “la quasi totalità dei lavoratori stranieri svolge un lavoro alle dipendenze e più del 70% è impiegato con la qualifica di operaio. La profonda segmentazione professionale schiacciata su profili prettamente esecutivi è pertanto chiara e confermata dalla scarsa presenza di lavoratori stranieri tra i ruoli dirigenziali e simili: appena lo 0,9% degli occupati ha una qualifica di dirigente o quadro a fronte dell’8% degli italiani” (cfr. tabella 2.11).
A partire da questo scenario si comprende un aspetto paradossale dei processi di integrazione sociale dei migranti nella società postindustriale: da un lato le nuove condizioni di lavoro e lo “sradicamento” professionale di questi lavoratori rispetto ai vecchi migranti li rendono meno garantiti, dall’altro la loro connaturata flessibilità e il maggior grado di istruzione li rendono molto più disponibili all’innovazione, alla sperimentazione e al cambiamento che, da condizione imposta diventa un’opportunità (poco sfruttata) per gli imprenditori che non valorizzano il capitale umano.
Al contrario, siamo di fronte ad una ricerca sfrenata del profitto correlata alla minimizzazione delle garanzie non solo per gli immigrati ma per i lavoratori (di qualunque categoria) italiani.
Eppure, nonostante le condizioni sfavorevoli che gli immigrati riscontrano nel nostro Paese, le imprese appartenenti a cittadini Extra UE sono complessivamente 335.452 unità nel 2014. Esse si collocano prevalentemente in Lombardia (il 18,7% del totale); percentuali importanti si registrano anche in Toscana (10%), nel Lazio (11,4%) e in Emilia Romagna (il 9,1%).
Dalla lettura dell’analisi effettuata nel “ V Rapporto annuale migranti” si desume che “Osservando la variazione percentuale registrata negli ultimi due anni (2013 e 2014) si delinea a livello nazionale un aumento di 6,2 punti percentuali (circa +20mila unità) riguardo all’avvio di imprese individuali da parte dei cittadini non comunitari, mentre nel dettaglio regionale l’aumento più cospicuo si è verificato nel Lazio (+13,5%) e in Campania (+13%). In termini di valori assoluti, nel Lazio si registra un aumento pari a +4.540 nuove imprese individuali di titolari extracomunitari.
Con riferimento alla distribuzione per settore di attività economica, gli imprenditori non comunitari sono prevalentemente concentrati in Commercio all’ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli etc. (il44,9% del totale) e nelle Costruzioni (il 22,3%), mentre il restante 30% circa delle imprese individuali non comunitarie si distribuisce fra gli altri settori e prevalentemente nelle Attività manifatturiere (8,5%), nelle Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione (5,3%) e nel settore Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese (5,7%).
Il peso che le imprese individuali con titolari extracomunitari hanno sul totale delle imprese individuali è pari al 10,3%, mentre una quota superiore al 10% si registra per i settori Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese (22,1%), Costruzioni (14,6%), Commercio all’ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli etc. (15,3%), Attività manifatturiere (11,9%) e Servizi di informazione e comunicazione (10,8%). La minore partecipazione degli extracomunitari nell’imprenditoria individuale si registra per i settori Agricoltura, silvicoltura pesca ed Estrazione di minerali da cavi e miniere” (cfr. tabella 6.2).
Da ciò emerge che i migranti portano ricchezza, non solo culturale, nel nostro Paese.
Mostrano disponibilità a progetti di partenariato con i loro territori di origine, pur tuttavia evidenziano le difficoltà che si incontrano in loco. In particolare non esistono garanzie per i progetti di investimento e le istituzioni/regole locali sono deboli e poco interessati a fruttare tale opportunità.
Al fine di valorizzare questa occasione di sviluppo imprenditoriale sarebbe importante creare un approccio di partenariato con suddivisione dei rischi su più partecipanti.
Ciò in quanto gli immigrati pur riconoscendo le difficoltà di investimento e di reinserimento nel proprio paese, non possono assumersi il rischio (quasi sempre non sono in condizioni economiche adeguate per farlo), preferendo condividerlo e, nel caso di progetti di investimento, appoggiarsi ad imprenditori italiani. Altrimenti investono in attività poco rischiose e legate ad attività a conduzione familiare.
Un altro fattore da analizzare è rappresentato dall’uso produttivo delle rimesse degli immigrati, che appare del tutto inadeguato.
Esse rappresentano solo una mera modalità di uso finalizzato al consumo o all’investimento immobiliare. Ciò in quanto gli incentivi agli investimenti da parte dei governi nord africani sono scarsi, poco noti e poco pubblicizzati, afflitti probabilmente per effetto di una gestione non sempre completamente trasparente ed efficiente da parte del personale pubblico amministrativo locale.
Non c’è infine un processo di integrazione nel mondo del lavoro italiano significativamente orientato alla crescita professionale dei migranti, che vivono la loro esperienza professionale come aleatoria, casuale e puramente strumentale.
Qualora, invece, sia espressione della coerenza tra progetto migratorio e aspirazioni professionali del soggetto diventa una mera occasione di stabilizzazione definitiva in Italia.
Le condizioni governative non stabili di quest’ultimi e la mancanza di incentivi da parte del nostro Paese non consentono il ritorno degli immigrati nel paese di origine.
L’incertezza che la migrazione comporta non si trasforma automaticamente in disponibilità al rischio imprenditoriale, nonostante il sogno del rientro e la voglia di concludere il proprio progetto migratorio “mettendosi in proprio” a causa dell’assoluta mancanza di sostegno all’imprenditorialità immigrata a cui assistiamo sia nei paesi di approdo che nei paesi di origine.
E’ questa una condizione che gli immigrati in Italia condividono con gli italiani emigrati in molti paesi europei ed extraeuropei.
Ad ulteriore conferma di questo trend si evidenzia che a fronte di una perfetta integrazione sociale degli imprenditori italiani realizzata in Germania o negli Stati Uniti le imprese italiane create dai nostri emigranti sono molto numerose grazie al sostegno ed aiuti, che consentono prospettive effettivamente concorrenziali rispetto alle piccole imprese autoctone.
La differenza cruciale non risiede nella cultura d’impresa dei paesi appena citati o nelle caratteristiche soggettive degli emigranti, ma nell’approccio che i paesi hanno avuto sulle tematiche insite nel fenomeno migratorio e nell’attuazione di politiche di sviluppo.
I migranti sono spesso utilizzati come manodopera agricola, sottoposti a condizioni di precarietà e abusi, nonché costretti dalle organizzazioni mafiose a subire sfruttamento e privazione di ogni qualforma di diritti umani.
E se si ritornasse alla mezzadria?
E’ un contratto agrario d’associazione, con il quale il proprietario di terreni (c.d. concedente) ed il coltivatore (c.d. mezzadro) dividono a metà i prodotti e gli utili derivanti dalla gestione dell’azienda agricola.
In questo modo non solo si riuscirebbe a creare sviluppo nei paesi di origine dei migranti permettendo a questi ultimi di non “stradicarsi” dalla propria terra ma, al contrario, l’imprenditore italiano amplierebbe la propria rete di vendita.
Da un lato vi sarebbe la responsabilità ed il rischio assunto dall’imprenditore italiano e dall’altro lato la disponibilità, da parte dell’immigrato a fare in loco le sue veci, dirigendo, coordinando ed organizzando lo spazio della produzione e della commercializzazione in un processo in cui, senza assumere il rischio, l’immigrato è il fiduciario dell’imprenditore disposto ad internazionalizzare la piccola impresa.
E’ probabilmente su questo terreno in cui la minimizzazione del rischio per l’immigrato da un lato e i vantaggi per l’imprenditore dall’altro possono incontrarsi, costituendo un percorso in cui l’immigrato può realmente considerarsi e realizzarsi quale agente di sviluppo.
La pre-condizione per cui un simile progetto possa realizzarsi è che agli immigrati sia riconosciuta nelle aziende in cui oggi lavorano un ruolo diverso da quello meramente esecutivo che viene loro riservato anche in presenza di una qualificazione professionale medio alta o comunque comparabile a quella dei colleghi italiani.
CONCLUSIONI
Gli elementi di debolezza analizzati, quali la mancanza di tessuto associativo stabile nel paese di origine e di inserimento nell’associazionismo sociale in Italia, la mancanza di disponibilità al rischio imprenditoriale in assenza di sostegno istituzionale nonché la mancanza di attenzione alla propria esperienza lavorativa come occasione di crescita professionale fanno apparire del tutto improbabile un’ipotesi di rientro finalizzato all’investimento produttivo di tipo imprenditoriale da parte dei migranti.
Molti di loro sono già dei potenziali mediatori di partenariati ed esperienze di cooperazione decentrata, al di là dell’informazione (scarsa) sulle opportunità e gli incentivi esistenti, possono fare da ponti tra le due società, fornire informazioni e ricercare clienti per imprese spesso all’avanguardia tecnologica e in grado di effettuare una concorrenza efficace nei confronti di imprese maggiori e assai meno dinamiche.
Numerose sono le possibilità per rendere possibile un modello di integrazione sociale che oltre a garantire i diritti sociali e sindacali percepisca gli stessi immigrati come una risorsa per l’intero sistema.
Una presa di coscienza sul reale potenziale umano rappresentato dagli immigrati potrebbe costituire un cambiamento di rotta non solo nella tutela dei diritti ma nell’accrescimento culturale ed imprenditoriale nel nostro Paese.