Lo incontriamo a Palermo, al Fuji Day organizzato da Sicily Photo perché è lui lo “special guest” della giornata. Ma Maurizio Faraboni, piemontese classe 1972, non ha affatto i modi spocchiosi della star e con grande gentilezza decide di rispondere alle nostre domande.
Faraboni comincia a fotografare appena diciannovenne iniziando dal mondo della moda ma approda ben presto ad altro tipo di fotografia, quella del reportage giornalistico che lo porta a collaborare con il Ilgiornale.it ed progetto di informazione dal basso “Gli occhi della guerra” basato sul crowdfunding da parte dei lettori che da 3 anni invia in giro per il mondo, soprattutto in zone di guerra, diversi reporter. Faraboni da aprile 2016 è stato scelto da Fuji per entrare a far parte della scuderia degli “X-Photographer”.
Maurizio, un omone che sfora il metro e novanta, ci aveva già colpito con i suoi scatti dal Senegal, dalla Repubblica Dominicana e dall’India, tutti reportage con una spiccata vocazione per il racconto sociale, sentirlo parlare in prima persona del suo lavoro, però, ci ha convinto ulteriormente della bontà del suo operato:
“Io faccio il mio lavoro non per soldi e nemmeno per fama. Per me fotografare è una missione, io lo faccio con il cuore, le grandi agenzie non mi sono mai interessate. Nel 2006 ero un fotografo “Nominee” per Magnum ma sono andato via dall’agenzia perché dovevo lavorare con dei canoni imposti dall’alto. Io, invece, sono sempre alla ricerca di storie di cui non parla nessuno: i ragazzi di Bucarest che vivono nelle fogne, i lebbrosari in Senegal”.
“Leprosy Forgotten” si può considerare il tuo lavoro di punta? Un reportage che sta attivando un circolo virtuoso che potrebbe portare ad una soluzione per questa gente:
“Tutto è cominciato fortuitamente: mi ero bucato un piede in Africa, in Senegal, sono entrato in quello che mi sembrava un piccolo ospedale ed invece mi sono trovato di fronte a queste persone, all’inizio mi hanno impressionato tantissimo. Non volevo scattare ma sono stati loro a chiedermelo ed io in quell’occasione avevo soltanto le ultime 10 foto nel rullino. Tornato in Italia mi sono informato e di questa vicenda non ne parlava nessuno, ero lì per fare dei servizi sull’Aids e l’ebola e una volta a casa mi sono chiesto: perchè nessuno parla della lebbra? E da allora ho portato avanti questa causa. Adesso sono tristemente famoso per essere il fotografo dei lebbrosi, la prossima settimana partirò con il programma di Italia 1 “Le Iene” e, nello specifico, con Marco Maisano che lavora anche lui a “Gli occhi della guerra”. Al di la della mia immagine di professionista, questa è una grande soddisfazione per me: i malati di lebbra avranno una voce fortissima tramite la televisione e finalmente qualcuno li aiuterà”.
Al caso si è interessato anche il pluricampione di MotoGP Valentino Rossi che ha donato un casco per far partire una raccolta fondi per l’acquisto di una camera iperbarica, un macchinario ospedaliero comunissimo in Italia e quasi introvabile in Africa che potrebbe salvare tantissime persone dalla lebbra, una malattia ormai più che curabile proprio grazie all’ossigenazione dei tessuti.
“Quando riesci, al di là delle pubblicazioni, a smuovere la coscienza della gente, è questo il risultato che più mi mette dentro la voglia di continuare. Una delle mie più grandi soddisfazioni, equivalente alla vittoria del Pulitzer, l’ho avuta grazie ad un’immagine scattata a Bucarest dove si vede un bambino dentro una macchina con il suo cane: durante una mostra una coppia ha visto questa foto ed ha avviato le procedure per l’adozione, riuscendoci. Per me una cosa del genere non ha prezzo”.
Come prepari i tuoi lavori?
“I reportage li studio a tavolino a casa, non arrivo mai in un posto senza sapere cosa fare, e soprattutto cosa non devo fare. Ad esempio a Bucarest, dove ho documentato la vita dei ragazzi che vivono nelle fogne, li sono stato invitato da Miloud Ouliki, un ragazzo che faceva il modello e che poi ha lasciato tutto per dedicarsi al recupero di questi giovani rumeni tramite l’utilizzo delle arti circensi – da questa storia il regista Marco Pontecorvo ha tratto il suo film Pa-ra-da, che è anche il nome della Fondazione creata da Ouliki – Con loro sono rimasto un mese. Sono servizi che nascono a volte per caso a volte perchè ti documenti”.
Come si arriva dalla passione alla professione?
“Io sono sempre stato fortunato. Ho cominciato come assistente ad un fotografo di moda che a quei tempi era il top al mondo, poi mi sono appassionato al reportage ed ho cambiato strada, la moda è bella quando sei giovane e resti affascinato da un mondo che è totalmente fuori da ogni canone per un ragazzo di quell’età, ho capito presto che non era quello che volevo fare. A me piace raccontare storie di persone che hanno bisogno d’aiuto, non mi ritengo un gran fotografo, le mie immagini non sono curatissime però io cerco di raccontare delle storie per colpire le emozioni della gente, quando riesci ad emozionare il pubblico per me è impagabile. Per continuare a lavorare mi sono dovuto adeguare, specialmente in questo periodo, ad alcune richieste del mercato. Prima scrivevo prendendo semplicemente degli appunti per ricordare i nomi delle persone, adesso devo assolutamente accompagnare le foto con dei testi, spesso devo fare dei video, oramai il reportage è cambiato tantissimo, prima partivo con un sacchetto di rullini e via, ora serve saper fare tutto”.
Da dove racconterai le tue prossime storie?
“Ho dei progetti in cantiere, la prossima tappa sarà l’Eritrea, al di là del Senegal con le Iene, anche lì andrò a raccontare una cosa che non sta raccontando nessuno, il mio giornale in un primo momento mi ha detto: “ma così non siamo sul pezzo, questa cosa non la sta raccontando nessuno”, poi ci hanno ripensato e mi hanno dato l’ok, un po’ come quando ho realizzato il servizio sulla miniera d’oro della Barrick Gold che sta distruggendo un’intera valle in Repubblica Dominicana, non ne parla nessuno: lì sono già morte oltre 200 persone a causa dell’inquinamento delle falde acquifere.A causa di questo reportage adesso ho grandi problemi con questa multinazionali ma come già detto per me sono missioni vere e proprie che ti senti di fare non perchè qualcuno te le impone per contratto”.
Dalla manica della camicia di Maurizio esce fuori un braccio di quercia, lineato da alcune cicatrici. La spiegazione di cosa siano quelle linee gela il sangue ma diventa anche uno spunto per parlare di approccio fotografico:
“Queste che ho sul braccio, e fin sulle spalle, sono machetate che ho preso ad Haiti. Mi hanno aggredito per portarmi via le reflex che avevo con me. Da quel momento preferisco utilizzare fotocamere non ingombranti, poco vistose ma soprattutto che non imbarazzano la gente. Io sono la prima persona a cui non piace essere fotografato, un macchinone puntato in faccia può essere invadente quindi adesso preferisco lavorare con un’attrezzatura molto più discreta. Con questa – il riferimento è alla sua amata X100T – non dai fastidio a nessuno, crea un’immediata empatia. Per i soggetti non sei più un fotografo professionista ed in questo modo riesco a lavorare benissimo”.