di Miriam Vitello
Per verginità, nel gergo comune, si intende quella condizione di chi non ha sperimentato rapporti sessuali completi. Ad essa sono culturalmente legate idee, credenze ed aspettative che variano in base al genere di riferimento. La così detta “perdita della verginità” è considerata un rito di passaggio fondamentale verso il diventare adulti.
In riferimento al genere femminile la verginità rappresenta il fiore da sciupare il più tardi possibile, un prezioso “sigillo di garanzia” che quando viene perso, porta con sé un po’ della propria dignità e illibatezza.
Si fa comunemente coincidere la “perdita della verginità” con la “rottura” dell’imene, una membrana che dovrebbe ricoprire l’apertura della vagina “separando” il vestibolo dalla vagina stessa. In realtà le convinzioni che l’imene rappresenti non solo una “barriera alla penetrazione” ma anche una misura di valutazione della propria integrità morale non sono corrette.
Innanzitutto l’imene è differente, nella forma e nelle dimensioni, da donna a donna; non chiude completamente l’orifizio vaginale tranne in rari casi patologici; è cosi esterno da poter essere “lacerato” anche senza che si verifichi un rapporto sessuale completo ed è variamente elastico, tanto da poter rimanere intatto dopo una prima penetrazione. Ci rendiamo quindi conto che l’associazione verginità-imene non può essere scientificamente accettata. La stessa espressione “perdere la verginità” implica una condizione di mancanza, di difetto, che condiziona il valore della persona a seconda del genere preso in considerazione.
Spesso un primo rapporto sessuale considerato precoce o inadeguato porta a definire la donna come una sgualdrina priva di dignità e rispetto per se stessa.
In alcuni Paesi, come l’Indonesia o l’Afghanistan, la verginità si lega indissolubilmente allo status sociale delle giovani donne, attraverso un vero e proprio strumento di valutazione, il cosiddetto “test della verginità”. Nel caso della non integrità dell’imene queste vengono additate come impure e inadeguate al matrimonio. Il cosiddetto “test delle due dita” è una pratica estesa anche negli Stati Uniti dove non esiste ancora una legislazione che ne vieti l’esecuzione.
Il genere maschile invece vive spesso il non essere più vergine come un traguardo da raggiungere il prima possibile, in quanto è manifestazione di virilità e mascolinità. Si è convinti che queste arricchiscano l’individuo di qualità indispensabili per l’autodeterminazione sociale. È frequente la pressione esercitata da familiari e amici che spesso porta i ragazzi o a compiere l’azione senza una voglia o consapevolezza reale o, nel caso contrario, ad una condizione di insicurezza e senso di incompletezza.
In entrambi i casi tutto ciò è il riflesso delle aspettative stigmatizzate che la società riversa sugli individui, facendoli coincidere con la condizione e attività sessuale del proprio organo genitale.
La verginità non si perde, perché ciò implicherebbe che il valore della persona sia diminuito rispetto alla condizione iniziale.
La verginità non si toglie, perché ciò implicherebbe una condizione di dominio e disuguaglianza. Piuttosto si condivide un’esperienza, in modo paritario.
Né il primo, né i successivi rapporti sessuali devono definire le nostre identità, frutto invece di percorsi infinitamente diversi e unici. Impariamo magari ad ascoltare, comprendere, accettare ed amare di più noi stessi smettendo di sovrapporci ad un modello che non ci appartiene, né ci rende liberi.