Oggi ricorre il decimo anniversario dalla stipula della Convenzione di Istanbul, uno strumento grazie al quale la violenza di genere entra nel diritto internazionale.
Si tratta del primo strumento giuridicamente vincolante che stabilisce una serie di norme per combattere e prevenire la violenza contro le donne. Pur essendo un trattato del Consiglio d’Europa, la Convenzione di Istanbul ha un’ambizione universale: possono, infatti, sposare e aderire alla convenzione Stati membri, Stati non membri i quali hanno partecipato alla sua elaborazione e dell’Unione europea e Stati non membri. Si tratta, dunque di un trattato aperto che stabilisce politiche comuni transnazionali per contrastare un fenomeno fin troppo diffuso nel mondo. Originariamente il nome del trattato è “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica” ma viene comunemente denominata Convenzione di Istanbul, riprendendo il luogo in cui l’11 maggio 2011 furono raccolte le prime firme degli Stati aderenti.
Il processo che portò alla nascita della Convenzione ha inizio negli anni ‘90, quando il Consiglio d’Europa inizia a promuovere piani e proposte per dare maggiore protezione alle donne e per inibire la violenza di genere. Ci si rese presto conto che era necessario stabilire una serie di norme comuni per garantire protezione alle vittime, ovunque fossero, per costruire una potente e completa azione volta a eliminare il problema della violenza contro le donne. Nel 2008, il primo passo importante: il Comitato dei Ministri della Giustizia, istituisce un gruppo di esperte ed esperti incaricato di tracciare i punti nevralgici della Convenzione. Solo l’11 maggio 2011 la convenzione è stata aperta alle firme degli stati aderenti, nella città di Istanbul in Turchia. La convenzione entrerà in vigore il 1 agosto 2014 e sarà ratificata in Italia all’unanimità dalla Camera dei deputati, il 28 maggio 2013. Sono vari gli obiettivi di questo strumento, come si legge all’articolo 1: “Proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica; contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta parità tra i sessi”. La Convenzione sottolinea, inoltre, come sia fondamentale per raggiungere gli obiettivi preposti, la collaborazione tra organizzazioni e autorità pertinenti statuali.
Prima ancora di tracciare gli obiettivi, la Convenzione di Istanbul si sofferma sulla definizione di “violenza”. Il trattato traccia un’importante distinzione tra violenza contro le donne e violenza domestica. L’articolo 3 afferma: “La violenza nei confronti delle donne viene definita come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne; che comprende atti che provocano sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce”, mentre l’espressione “violenza domestica designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”. In entrambe le definizioni la violenza non è intesa come meramente fisica ma comprende una sfera psicologica ed economica.
Per portare a termine le politiche comuni transnazionali delineate dalla Convenzione è fondamentale che gli Stati si impegnino a rispettare le norme previste. Gli obblighi, delineati all’art. 5 e 6, costituiscono il cosiddetto “4Ps approach” che impone agli Stati aderenti di: prevenire la violenza mediante misure che affrontano le cause profonde del fenomeno, volte a cambiare atteggiamenti, ruoli di genere e stereotipi che rendono accettabile la violenza contro le donne; proteggere donne e ragazze che sono a rischio di subire violenza e istituire servizi di supporto specialistici per le vittime e i loro bambini; perseguire gli autori di violenza, consentendo la prosecuzione delle indagini e dei procedimenti penali anche se la vittima ritira la denuncia; adottare e attuare “politiche integrate” a livello statale, che siano efficaci, coordinate e complete, e che comprendano tutte le misure pertinenti per prevenire e combattere ogni forma di violenza contro le donne. Inoltre, il trattato indica i reati che i Paesi aderenti devono rendere perseguibili penalmente: violenza sessuale, stupro, violenza psicologica, stalking, violenza fisica in generale e altre violenze di natura sessuale, matrimonio forzato, mutilazioni genitali femminili, sterilizzazione forzata, delitti d’onore e molestie sessuali. La Convenzione ha dunque introdotto delle tipologie di reato che non erano incluse nelle giurisdizioni di molti Paesi.
La Convenzione di Istanbul ha anche predisposto un organismo di controllo per verificare la reale applicazione da parte degli Stati contraenti. Da qui nasce il GREVIO, gruppo di esperti ed esperte contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica: un organismo indipendente composto da un massimo di 15 individui noti per la loro “personalità elevata e moralità”.
La convenzione è stata ratificata finora da 34 Stati, e firmata solo da 12 Paesi compresa Armenia, Ucraina, Gran Bretagna, Slovacchia, Ungheria, Repubblica Ceca, Bulgaria etc. Gli Stati che hanno ratificato la Convenzione sono giuridicamente vincolati dalle sue disposizioni, la ratifica, infatti obbliga ad adeguare l’ordinamento civile e penale per prevenire la violenza di genere. Proprio per questo vincolo, molti stati tendono a firmare la Convenzione ma non a ratificarla.
Nonostante la violenza di genere sia oggi ritenuta una problematica estremamente urgente ci sono Paesi che in tema di violenza ha fatto enormi passi indietro. La Turchia, luogo dove è nato il trattato, sabato 20 marzo, si è ritirata dalla convenzione e l’Ungheria ha deciso di non ratificarla. Secondo le autorità turche ci sono leggi nazionali forti a tal punto da garantire la protezione delle donne, nonostante si siano registrati nel paese oltre 300 casi di femminicidi nel 2020 e 78 femminicidi da inizio 2021. Inoltre entrambi i paesi, Ungheria e Turchia, hanno denunciato la convenzione di voler “normalizzare l’omosessualità e di favorire l’“ideologia gender”.
Recentemente anche la Polonia ha messo in discussione la Convenzione di Istanbul. Il primo ministro ha deciso di deferire la Convenzione al Tribunale Costituzionale per accertarne la compatibilità con la Costituzione del paese. L’ipotesi sostenuta dal governo, guidato dal 2015 da un partito di estrema destra radicale, è che la Convenzione “viola i diritti dei genitori”. Inoltre il 30 marzo in parlamento si è discusso un progetto di legge intitolato “sì alla famiglia, no al gender” sostenuto dal movimento ultra cattolico Ordo Iuris: il testo che si presenta come una convenzione alternativa a quella di Istanbul pone al centro i “diritti della famiglia”, e individua le cause della violenza domestica nell’indebolimento dei legami familiari e dei valori sociali tradizionali. Il testo inoltre si indirizza verso il divieto di aborto ponendosi a “protezione della vita fin dal concepimento” e riserva il matrimonio esclusivamente all’unione fra uomo e donna.
Il Consiglio d’Europa ha recentemente evidenziato che la Convenzione di Istanbul non deve essere considerata solo come uno strumento giuridico ma come una sollecitazione e un incoraggiamento all’azione e dunque alla reale applicazione del trattato degli Stati aderenti, per eliminare concretamente la violenza di genere. E’ necessario fare un passo avanti soprattutto quando il fenomeno sembra tutt’altro che superato. Basti pensare che, come mostrano i dati dell’OMS, 1 donna su 3 ha subito una forma di violenza, sia essa fisica o sessuale, almeno una volta nella vita, un numero che è rimasto in gran parte invariato negli ultimi dieci anni; solo in Italia il fenomeno ha colpito più di due milioni di donne negli ultimi 5 anni.
Questa violenza inizia presto: 1 giovane donna su 4 (tra i 15 e i 24 anni), che ha avuto una relazione, ha già subito violenza da un partner prima dei vent’anni.
La violenza perpetrata dal partner è di gran lunga la forma più diffusa di violenza contro le donne a livello globale (colpisce circa 641 milioni di donne). Tuttavia, il 6% delle donne nel mondo riferisce di essere stata aggredita sessualmente da qualcuno che non sia il proprio partner. Purtroppo a causa della forte stigmatizzazione, non sempre le donne denunciano gli abusi subiti, ed è per questa ragione che le cifre reali potrebbero essere molto più alte.
I numeri dei femminicidi sono davvero allarmanti, nel mondo si stimano 137 donne morte per mano di un uomo ogni giorno: delle 87.000 donne uccise intenzionalmente nel 2017, più della metà (50.000) sono state vittime del proprio partner o di un familiare.