Era l’1 febbraio 1945 quando fu sancita l’estensione del diritto di voto alle donne con un decreto luogotenenziale a firma di Umberto II di Savoia.
Il decreto fu licenziato dal CdM del 30 gennaio del 1945 votato da tutti i partiti presenti, ad eccezion fatta per repubblicani e azionisti. Emanato il 1 febbraio, avrebbe avuto la sua applicazione un anno dopo, il 10 marzo 1946, per le elezioni delle amministrazioni. Ancora più importante fu la partecipazione femminile alle prime elezioni libere dal 1924, ovvero quelle del 2 giugno 1946 in cui si scelse tra Monarchia e Repubblica e si elesse l’Assemblea Costituente.
La storia della lotta per il suffragio femminile in Italia comincia prima dell’unità nazionale. Nel granducato di Toscana e nel lombardo-veneto amministrato dagli Asburgo, infatti, alle donne benestanti ed economicamente indipendenti era concesso di votare alle elezioni amministrative, in alcuni casi tramite un tutore, in altri liberamente e personalmente.
Dopo l’Unità d’Italia le donne rimasero escluse dall’elettorato sia passivo che attivo, amministrativo e politico. Subito iniziarono i movimenti d’opinione, e furono molti i disegni di legge presentati per estendere alle donne quantomeno il diritto di voto alle elezioni amministrative ma anche quando i ddl erano sostenuti da membri del governo o dallo stesso Presidente del Consiglio (Depretis nel 1880) non riuscirono mai ad essere approvati, venendo respinti dalle Camere.
I primi successi, in ambito amministrativo, si ebbero ad inizio ‘900 quando alle donne fu concesso il diritto di votare per gli organi di importanti enti quali Camere di Commercio e scuole. Il compimento, prima del decreto del 1945, sarebbe arrivato nel 1925 quando entrò in vigore la legge che sanciva il suffragio femminile amministrativo, legge che però sarebbe stata di fatto abrogata dalla riforma podestarile che aboliva le elezioni locali.
Se per il voto amministrativo la strada fu relativamente semplice, per quello politico e per l’elettorato passivo la strada fu in salita. Fino alla fine del 1800 era dato per scontato che le donne potessero al più aspirare a votare per elezioni locali, mentre l’interessarsi delle questioni politiche era considerato in contrasto con la natura stessa della donna. Qualche passo avanti, nel dibattito pubblico, lo si fece ad inizio ‘900 con il movimento delle suffragette, ma il vero punto di svolta fu la prima guerra mondiale quando le donne sostituirono nelle fabbriche e nelle aziende gli uomini al fronte, sancendo definitivamente la loro importanza allo sviluppo sociale, politico ed economico della nazione. Alle elezioni del 1919, infatti, tutti i maggiori partiti avevano in programma l’estensione del voto, almeno quello attivo, alle donne.
Con l’avvento del fascismo ogni discussione sul voto femminile, al di là del formalismo di una legge, venne meno dato che era il voto tout court, sia maschile che femminile, ad essere precluso. Bisognerà attendere il febbraio 1945 per il diritto di voto attivo e il marzo 1946 per quello passivo, ovvero la possibilità di essere elette.
Voto alle donne e potere maschile
Se ormai il diritto di voto alle donne è cosa acquisita, è ancora lunga la strada per un vero riequilibrio del potere tra i sessi in Italia. Sono solo 3 le donne tra i giudici costituzionali (Cartabia, Conti e Saulle) e sono state pochissime le donne alla guida di ministeri di peso, ad ogni modo e paradossalmente la politica forse è tra i campi dove è più avanzata la parità di genere. Infatti nell’industria, anche se le donne rappresentano il 30% dei membri di CdA, sono solo il 3% le amministratici delegate tra le aziende italiane. Una quota bassissima che dovrebbe farci riflettere su quanto ancora c’è da fare nel campo della parità di genere e quanta distanza ci sia tra il dato formale e costituzionale in cui l’uguaglianza tra uomo e donne è sancita e il dato reale in cui la bilancia pende ancora dal lato maschile.