Sono passati esattamente 11 anni dalla morte di Federico Aldrovandi, lo studente ferrarese deceduto il 25 settembre 2005 in circostanze mai chiarite del tutto durante un controllo della Polizia.
Quattro poliziotti sono stati condannati nel luglio del 2009 in primo grado a 3 anni e sei mesi di reclusione per, come recita la sentenza, eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi. La condanna è stata confermata poi dalla Corte di Cassazione.
Ma veniamo ai fatti: la notte del 25 settembre 2005 Aldrovandi si fece lasciare dagli amici in una strada nelle vicinanze di casa per tornare a piedi dopo aver trascorso la serata al locale “Link” di Bologna. Era stata una serata un po’ sopra le righe per così dire, in cui il giovane assunse sostanze stupefacenti e alcool in quantità comunque modeste, tanto da apparire a fine serata abbastanza tranquillo a detta dei testimoni.
Ad incrociare per prima la strada di Federico, fu la pattuglia a “Alfa 3”, con a bordo i poliziotti Enzo Pontani e Luca Pollastri, allertati da alcuni residenti per degli schiamazzi nella zona. Gli agenti descrissero il ragazzo come un invasato e violento, affermarono inoltre di essere stati colpiti con colpi di karate senza un apparente e reale motivo. Motivo per cui chiesero dei rinforzi: poco tempo dopo arrivò infatti la volante “Alfa 2”, con a bordo Paolo Forlani e Monica Segatto.
A questo punto, secondo le ricostruzioni, lo scontro tra i quattro poliziotti e il giovane diventa molto violento, addirittura durante la colluttazione due manganelli si spezzano. La colluttazione porta Aldrovandi alla morte, sopraggiunta per “asfissia da posizione“, cioè con il torace schiacciato sull’asfalto dalle ginocchia dei poliziotti.
Alle 6.04 la prima pattuglia richiese l’invio di un’ambulanza per un sopraggiunto malore. Secondo i tabulati dell’intervento, alle 6.10 arrivò la chiamata da parte della centrale operativa della Polizia al 118 che inviò sul posto un’ambulanza ed un’automedica, giunte sul posto rispettivamente alle 6.15 ed alle 6.18.
All’arrivo sul posto, il personale del 118 aveva trovato il paziente, secondo il verbale, “riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena, era incosciente e non rispondeva”. L’intervento si concluse, dopo numerosi tentativi di rianimazione cardiopolmonare, con la constatazione sul posto della morte del giovane, per arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale.
Fin qui le ricostruzioni ufficiali ma numerosi dubbi emersero subito: innanzitutto non si capì la ragione per cui la famiglia venne avvisata della morte del ragazzo quasi cinque ore dopo, alle ore 11.
Le numerose perizie effettuate prima e durante i vari processi si smentirono a vicenda, quel che appare certo è che da sole, le sostanze stupefacenti assunte dal giovane non potevano giustificare la morte. La perizia del medico-legale incaricato dalla famiglia parlò infatti di “un’anossia posturale’, dovuta al caricamento sulla schiena di uno o più poliziotti durante l’immobilizzazione.
Per quanto riguarda l’assunzione di droghe, la quantità di sostanze tossiche assunte dal giovane era la medesima rilevata dai periti della Procura, e assolutamente insufficiente a causare l’arresto respiratorio: in particolare l’alcol (0,4 g/L) era inferiore addirittura ai limiti fissati dal codice della strada per guidare, la ketamina era invece 175 volte inferiore alla dose letale e, stante lo stato di agitazione imputato a Federico Aldrovandi, l’eroina assunta non poteva essere significativa dato il forte effetto sedativo dell’oppiaceo.
A questo si aggiunga che tutte le perizie hanno evidenziato le gravi violenze subite dal giovane durante tutto l’intervento delle due pattuglie di Polizia.
Dopo vari processi, e numerosi tentativi di depistaggio, si arrivò alle già citate sentenze e ad un risarcimento di due milioni di euro alla famiglia, ognuno dei quattro agenti colpevoli della morte di Federico è tenuto a risarcire, in proprio, un danno di circa 467.000 euro.
La storia non finisce qui. I poliziotti, scontate le loro pene, sono tornati regolarmente in servizio anche se con altre mansioni. La Segatto addirittura, dopo solo un mese di reclusione, in virtù della legge “svuota carceri” ha usufruito anche degli arresti domiciliari.
Al di là delle sentenze e del fatto che molti lati della vicenda di Federico Aldrovandi non sono stati del tutto chiariti, è stata una triste pagina per l’Italia. Un Paese che aspetta ancora il reato di tortura e in cui non è la prima volta, né l’ultima, in cui il lodevole lavoro degli uomini delle forze dell’ordine, è macchiato da alcuni componenti che invece di proteggere cittadini li condannano arbitrariamente oltre le loro colpe.