Di Andrea Governale – Nel solo 2015 si sono registrati più di un milione di nuovi arrivi sulle coste europee. La grande maggioranza dei migranti (850.000 circa) è approdata in Grecia, per poi dirigersi a Nord lungo la rotta balcanica.
Il protocollo di Dublino è ancora l’unico regolamento vigente in tutta Europa sul tema dell’accoglienza dei richiedenti asilo, e prevede che questi debbano presentare la domanda nel paese di arrivo, a prescindere da quale sia la destinazione desiderata. La conseguenza di questo ordinamento è che i migranti sono obbligati a chiedere la protezione internazionale non tanto nel paese in cui arrivano, quanto nel primo che li identifica. Lo scorso anno l’Ungheria è stata la seconda nazione per domande d’asilo registrate, dopo la Germania, e ben al di sopra di Austria e Italia. A questa pressione dovuta alla propria posizione geografica, e alla mancanza di coordinamento sul tema da parte della Comunità Europea, l’Ungheria ha scelto di rispondere con la chiusura del confine a Sud, per arrestare il flusso di migranti in entrata.
Quasi tutti i migranti diretti in Europa cercano di raggiungere i paesi più industrializzati, spesso per ricongiungersi a parenti, e prediligono Germania, Inghilterra e paesi scandinavi. Quando però gli viene impedito di terminare il loro viaggio, restano in gran parte bloccati nei paesi di transito, nei quali l’elaborazione della domanda di asilo li costringe a permanenze di diversi mesi, senza la certezza di essere poi accolti.
Il programma di redistribuzione dei richiedenti asilo approvato a settembre 2015 in deroga al protocollo di Dublino, ha coinvolto numeri tali da risultare irrilevante (i trasferimenti dovrebbero essere circa 50.000 in tutti i 28 paesi della UE), permettendo agli stati membri non solo di aderire su base volontaria, ma anche di stabilire un numero preciso di rifugiati da accogliere, anziché una percentuale su quelli arrivati. Come se non bastasse la redistribuzione approvata, a distanza di sei mesi non è ancora stata avviata.
Chiaramente queste circostanze mettono in grave difficoltà i paesi di transito, costretti a sobbarcarsi il peso del mantenimento dei profughi, dei rimpatri, e a subire le conseguenze sociali di una pressione e tensione costante sui propri confini. Gli stati più esposti al flusso di migranti in arrivo hanno quindi assunto decisioni unilaterali, tra le quali il muro voluto dal premier ungherese Orban, che ha raggiunto gli onori della cronaca per l’impatto simbolico determinato dalla chiusura del confine, e per le proprie conseguenze sul piano umanitario e del diritto internazionale. Sebbene l’Ungheria sia stata stigmatizzata per tale scelta, nei mesi successivi Macedonia e Austria hanno assunto provvedimenti analoghi.
La stretta del premier ungherese sulle accoglienze non si limita alla chiusura del confine: il 4 settembre del 2015 sono state approvate le leggi contro l’immigrazione volute dal governo, in virtù delle quali attraversare illegalmente il confine è diventato un reato, per il quale sono previsti fino a tre anni di reclusione, con sensibili inasprimenti delle pene in caso di danneggiamento al nuovo muro. Inoltre sono stati dispiegati sul confine 4.000 soldati, oltre ai 2.000 poliziotti che sono stati aggiunti ai controllori dei valichi già presenti, è previsto infine l’impiego di unità speciali, cinofile ed elicotteri.
I poliziotti e i militari di guardia al confine sono numerosi, presidiano il varco autostradale in forze e con mitragliatrici in bella vista. Varcare quel valico è impossibile per chiunque non ne abbia diritto agli occhi del governo ungherese, e si possono incontrare diverse pattuglie nelle zone limitrofe, fino ad alcuni km di distanza.
Nella sua semplicità il muro è efficace, e facile da riparare se danneggiato: una rete sormontata da filo spinato si estende per centinaia di km in entrambe le direzioni, circondando il casello autostradale, e a distanza di alcune centinaia di metri l’uno dall’altro, si scorgono presidi di polizia, che sorvegliano il perimetro. Il varco può essere chiuso con spesse cancellate mobili, solitamente appoggiate lungo il guard rail, e pronte per sbarrare il passaggio rapidamente se necessario. Poco distante si trova un enorme recinzione, all’interno della quale sono rimasti solo dei container della croce rossa, che ne denunciano l’utilizzo: infatti si tratta del presidio che nell’estate 2015 è stato teatro degli scontri tra i migranti e la polizia ungherese, le cui immagini fecero il giro del mondo. Oggi non è altro che una cattedrale nel deserto, un enorme spiazzo abbandonato, circondato da filo spinato e decine di telecamere. Oggi da quel valico passano solo persone autorizzate, dopo controlli meticolosi ai documenti, ai bagagli, e soprattutto ai veicoli. Se la ricerca di profughi nascosti permette alle auto di passare relativamente in poco tempo, impone invece ai camionisti interminabili code e ore di attesa, prima che i loro veicoli siano controllati.
Non si può negare l’efficienza dell’impianto, il confine tra la Serbia e l’Ungheria è chiuso ermeticamente, tentare di scavalcare quelle reti sormontate da lame affilate senza essere individuati è impossibile, e le forze dell’ordine sembrano non attendere altro che riaccompagnare all’esterno del loro paese qualunque ospite sgradito. Il muro voluto da Orban ha svolto il suo lavoro alla perfezione, arrestando il flusso di migranti in arrivo e imponendogli un cambio di rotta, rappresenta oggi il confine dove qualunque speranza deve arrestarsi, nella sua impermeabilità svolge un ruolo di deterrenza, dissuadendo chiunque dal tentare un ingresso clandestino. Il governo che ha voluto quel muro è stato ripagato dei propri sforzi da un’estrema efficienza dell’opera, ormai inutile a fermare un flusso che, ha cambiato direzione in preda alla rassegnazione. Il muro di Orban resta quindi un monumento semplice e desolato, una visione angosciante che ricorderebbe la cortina di ferro, se non si trattasse della porta d’ingresso della civile Europa.
Se l’Ungheria sembra avere risolto il proprio problema, non si può dire altrettanto degli altri paesi di transito: nei primi due mesi di quest’anno, complice l’inverno mite, si sono registrati più sbarchi che nello stesso periodo dell’anno scorso. L’escalation dei conflitti in medio oriente e in Africa, e in particolare l’inasprimento di quello siriano, lasciano immaginare un aumento costante delle fughe dai paesi in guerra, di persone che si vanno ad aggiungere ai profughi arrivati negli anni precedenti, e che da alcuni anni giungono in Europa ad un ritmo sempre crescente.
Costretti a scegliere tra un paese in conflitto e un viaggio incerto sul mare, è probabile che i flussi continuino a crescere, nonostante i tentativi di arginamento dei singoli stati europei: mentre ci trovavamo su un confine deserto in Ungheria, migliaia di esseri umani asserragliati centinai di km più a Sud, sul confine tra Grecia e Macedonia, sfondavano un altro muro di filo spinato, e subivano cariche dalla polizia macedone. Come l’Ungheria, anche Grecia, Macedonia e Austria sono inquiete rispetto alla propria posizione geografica, che li rende paesi di transito, e nel corso degli ultimi mesi ognuno di questi governi ha preso contromisure per arginare gli ingressi sul proprio territorio.
Resta da capire quale sarà il destino dei migranti, i grandi ignorati di questa storia, quando non troveranno più valichi aperti per entrare nel loro sogno occidentale, e saranno spinti ad accalcarsi a migliaia davanti a reti metalliche e agenti armati. Ci aspettiamo che si accampino pazientemente in attesa della prossima repressione come a Calais?