Sono passati esattamente 30 anni dal disastro naturale di Chernobyl. L’evento ha costituito il più grave incidente mai verificatosi in una centrale nucleare.
Insieme all’incidente avvenuto a Fukushima nel marzo del 2011, è uno dei due incidenti classificati come catastrofici e di livello 7, il massimo livello previsto, dall’Agenzia Internazionale per l’energia atomica (IAEA).
Il disastro si verificò il 26 aprile del 1986, intorno alle ore 1.23, presso la centrale nucleare V.I. Lenin, situata a 18 km dalla città di Chernobyl nel territorio oggi all’interno dell’Ucraina e all’epoca facente parte dell’Unione Sovietica.
Le cause furono individuate in negligenze del personale sia tecnico che dirigente e da gravi carenze strutturali della centrale, nonché all’errata gestione economica e amministrativa della stessa.
Tecnicamente nel corso di un test definito “di sicurezza” il personale si rese responsabile della violazione di svariate norme di sicurezza e di buon senso, portando a un brusco e incontrollato aumento della potenza (e quindi della temperatura) del nocciolo del reattore numero 4 della centrale. In questo modo si determinò la scissione dell’acqua di refrigerazione in idrogeno e ossigeno a così elevate pressioni da provocare la rottura delle tubazioni del sistema di raffreddamento del reattore.
Il contatto dell’idrogeno e della grafite incandescente delle barre di controllo con l’aria innescò una fortissima esplosione, che provocò lo scoperchiamento del reattore che a sua volta innescò un vasto incendio. Una nuvola di materiale radioattivo fuoriuscì dal reattore e ricadde su vaste aree intorno alla centrale, contaminandole pesantemente e rendendo necessaria l’evacuazione e il reinsediamento in altre zone di circa 336.000 persone.
Le nubi radioattive arrivarono anche nell’Europa continentale, rendendo critica la situazione anche in Francia, Italia, Scandinavia, Germania, Svizzera, Austria, fino a toccare addirittura le coste dell’America del Nord.
Un rapporto del Chernobyl Forum redatto da agenzie dell’ONU, conta 65 morti accertati e più di 4000 casi di tumore alla tiroide tra i soggetti di età compresa tra 0 e 18 anni al tempo del disastro, larga parte dei quali probabilmente attribuibili alle radiazioni. La maggior parte di questi casi sono stati trattati con prognosi favorevoli. Al 2002 si erano contati 15 morti.
I dati ufficiali sono contestati da associazioni antinucleariste internazionali, fra le quali Greenpeace, che presenta una stima di fino a 6 milioni di decessi su scala mondiale nel corso di 70 anni, contando tutti i tipi di tumori riconducibili al disastro secondo il modello specifico adottato nell’analisi. Il gruppo dei Verdi del parlamento europeo, pur concordando con il rapporto ufficiale ONU per quanto riguarda il numero dei morti accertati, se ne differenzia e lo contesta sulle morti presunte, che stima piuttosto in 30.000.
Come spesso accade in questi casi, difficile fu stabilire le reali responsabilità. Nell’agosto 1986 venne celebrato un processo a porte chiuse a carico del personale e di alcuni dirigenti, che si concluse con 67 licenziamenti e 27 espulsioni dal partito comunista.
Viktor Bryukhanov, direttore della centrale nucleare e a Nikolai Fomin, ingegnere capo, furono condannati ai lavori forzati con l’imputazione di “negligenza criminale”. Nelle cause civili 7 milioni di persone hanno ricevuto un risarcimento. Attualmente una quota compresa tra il 5% e il 7% della spesa pubblica in Ucraina e Bielorussia, viene utilizzata per varie forme di risarcimento correlate a Chernobyl.
Un evento che ha segnato la storia dell’uomo e che assume maggiore rilievo oggi in un periodo storico in cui si discute continuamente della necessità di utilizzare sempre più energie alternative non dannose per l’ambiente e per l’uomo.
Per chi volesse approfondire ulteriormente quanto accaduto a Chernobyl, suggeriamo la visione di questo interessante documentario