105 i pañuelos viola.
Un pañuelo per ogni donna e soggettività vittima di femminicidio e transcidio in Italia nel 2023.
Per ogni donna e soggettività la cui vita è stata spezzata da familiari, mariti, compagni o ex, vi è un’altra donna che ha dedicato del tempo per ricucirla a mano, con rabbia e con amore.
L’uncinetto, simbolo del lavoro domestico, diventa un’arma rivoluzionaria tra le mani di donne di diverse età, provenienti da ogni regione d’Italia, che chiedono giustizia per tutte le donne e soggettività uccise dagli uomini.
Tutti i pañuelos compongono un pañuelo più grande che irrompe nello spazio pubblico per denunciare e descrivere la portata di un fenomeno che ha numeri sconcertanti.
Un espediente simbolico per riprendere il filo di un’esistenza che è stata interrotta e chiedere una risposta alla fine di queste vite.
Uno spazio di memoria e di rivendicazione, che pone l’attenzione non solo sui numeri (insufficienti da soli a denunciare e a descrivere la portata di un fenomeno alimentato da stereotipi e aspettative di genere cristallizzate nella nostra cultura) ma anche sulle singole persone che, non potendo più essere presenti fisicamente, ritornano sul piano simbolico nei pensieri e nelle azioni delle compagn3 che si batteranno affinché nessun’altra donna venga silenziata.
Perché il pañuelo: è la tipologia di fazzoletto ereditata dalle madri di Plaza de Mayo, simbolo della lotta delle donne che non si arrendono mai.
Perché il viola: è il colore che rappresenta la rivendicazione dei diritti delle donne e la lotta contro la violenza patriarcale.
105 femminicidi nel 2023: uno ogni tre giorni
Perché il femminicidio non può mai essere considerato un atto isolato, ma è un fenomeno strutturale?
Perché è la massima espressione del potere e del controllo dell’uomo sulla donna vista come un oggetto di cui è proprietario, di cui ha il possesso, il controllo.
Perché è l’ultimo atto all’interno di un ciclo di violenza, esercitata sistematicamente sulle donne a causa di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, che ha lo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità.
La cultura patriarcale non accetta il mancato assoggettamento fisico o psicologico della donna, percepita come oggetto discriminabile, violabile, annientabile .
Come afferma l’antropologa messicana Marcela Lagarde, una delle più note teoriche del femminicidio, quest’ultimo esprime “la forma estrema della violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine, quali i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale, che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia”.
La responsabilità è individuale, sociale e istituzionale, poiché il modello socio-culturale patriarcale è assorbito da tutti i livelli della nostra società, dall’individuo alle istituzioni.
Ad esempio, tra persone comuni, opinionisti e politici c’è chi ancora oggi si rifiuta di utilizzare il termine femminicidio. Chi nega le dimensioni strutturali del fenomeno, che affonda le sue radici nella cultura patriarcale, sostiene l’inutilità di tale vocabolo: “esiste già l’omicidio, perché specificare che ad essere uccisa sia una donna?”
Non c’è da stupirsi se si considera che fino a 50 anni fa in Italia esisteva la patria potestà: l’uomo era considerato il capo famiglia, la responsabilità genitoriale non era condivisa tra i coniugi e la moglie era obbligata a seguire il marito in qualunque nuova residenza.
In Italia fino a 40 anni fa esisteva il matrimonio riparatore, per cui lo stupratore poteva evitare il carcere se sposava la vittima.
Fino al 1981, l’altro ieri, era legge il delitto d’onore: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. […] se dalla lesione personale deriva la morte, la pena è della reclusione da due a cinque anni.” art. 587 c.p. (abrogato con la Legge n. 442/1981).
Il femminicidio era giustificato, la pena da scontare irrisoria.
Lo “scatto d’ira”, il “raptus di gelosia”: il linguaggio che veniva utilizzato durante il fascismo – perché ricordiamolo che il codice penale, imperniato sulla triade “Dio, patria, famiglia”, fu introdotto nel 1930 – è lo stesso di quello utilizzato oggi, nel 2023 dai media italiani; continuano sulla scia di quel linguaggio patriarcale proprio di chi considera la moglie, la compagna, l’amica, la donna appena incontrata, non un essere umano di pari dignità e di pari diritti, ma un oggetto su cui sfogare le proprie frustrazioni, la propria rabbia, la propria violenza, il proprio potere.
Per questo non solo si deve parlare di femminicidio, ma occorre farlo con un nuovo linguaggio.
E noi vigileremo, faremo rumore, non staremo mai zitte, finché la parola femminicidio cadrà in disuso perché nessuna morte di una donna sarà causata dal semplice fatto di essere donna.
Grazie alla Bottega Gullo di Palermo, alla creator digitale Uncinetto d’Argento – Silvia Lampo, il club Vanchiglia Social Knitting di Torino e a tutte le persone che da ogni regione d’Italia e dal nord Europa hanno contribuito all’iniziativa.
Misilmeri (PA): Rita Spinola
Torrefaro (ME): Vadalà Letteria
Binaseo (Milano): Linda Mastrolia
Roma: Chiara Tognon
Peschiera Borr (Milano): Emanuela Gironi
Milano: Silvia Barletta
Ladispoli (Roma): Lucia Esposito
Parma: Tiziana Fuoco
Ravenna: Donatella e Martina Buda
Imperia: Maria Grazia Molinari
Mirandola, Modena: Alessia Bucci e Adriana Roncatti
Salerno: Maria Teresa Errico
Bergamo: Francesca Capoferi
Messina: Giovanna Grinciar, Maria Certo, Vera Rappazzo
Friuli: Lorena Cogo
Gioia del colle, Bari: Tina Antonicelli, Lucia Cacciapaglia, Maria Celiberti Barbare Herrera Garcia, Angela Aniello, Stefania Minutiello, Naivy Lisa Masi, Dina Colacicco, Beatrice Crisantelli, Lina Gemmati, Anna Losito, Assunta Mendolicchio
Lecco: Marta Botturi
Cinzie Coleselle
Valvasone: Marina Nosella
Ascona: Monica I
Roma: Flavia Ricci
Lucca: Sabrina del Corso
Valeria Marzo
Padova: Elisa Zuin
Venezia: Cristina Michielletto
Siziano: Valeria Vanotti
Noviglio (Milano): Nadia Re
Roma: Emanuela Cingolani
Roma: Dottoressa Marina
Spoltore: Carmen Fratarcoli
Trentola Ducenta: Rosaria Andretta
Roma: Tiziana Andrenacci
Lainate (Milano): Giuseppina Riggio
Edinburgh (Scozia): Chiara Lattini
Livorno: Patrizia Cozza
Milano: Nadia Marchesotti
Liguria: Cristina Botta
Santena: Anonimo
Nocera Sup: Brengoca Assunta
Milano: Beatrica Mazzone
Genova: Marina Tassino
Bologna: Lucia Massaro
Firenze: Samuela Maissaini
Vicenza: Jessica Rosa Todaro
Milano: Ice Sissi
Trento: Marzia e Sabrina
Torino: Chiara Paterna e co Guerriglia
Vicenza: Teresa Cavallaro
Lentiscosa: Luisa Josefina Sansiviero
Roma: Paola Giaccone
Torino: Valentina Pizzuto Antinoro
Silvia Alfonso
Carmela Cilumbriello
Brescia: Silvia Galeandro
Granarolo dell’Emilia: Ratiu Camelia
L’iniziativa è realizzata nell’ambito del progetto Legami supportato dall’Agenzia Nazionale per la gioventù nell’ambito del programma Corpo Europeo di Solidarietà.